Le fotografie della Facchin portano visivamente impresso lo stigma del tempus mundi, infatti offrono al lettore la sensazione che dall'origine sia emerso un magma, una materia da cui tralucono – a tratti – i barbagli di una luminosità. Nell'immagine a lato, ad esempio, è anche evidente che la forma tradisce una palese melanconia.
Il medium fotografico ha una sua specificità: quella di essere attrezzato per rappresentare "il mondo visivo in tutta la sua travolgente complessità" (Arnheim); perciò, dico io, anche della materia informe, declinata allo statu nascenti. Il magma corporale che l'artista evoca può suscitare un sentimento di struggente malinconia, forse perché emerge – come direbbe Jean Starobinski – da una "tomba vuota", oppure perché fuoriesce da un "vento freddo".
Sigmund Freud ha insegnato che la malinconia deriva dall'ossessione della caducità. E' la permanente e iterata sensazione-visione del vuoto-lutto che determina il senso della melanconia. L'Essere si incista del suo destinale dover essere per la morte. Così, le cose manifestano l'essenziale profilo del vuoto-lutto da cui germinano. Il colore grigio ed il marrone dominano in questa partitura fotografica. Il marrone è il colore di Gaia, la dea della Terra (che separa l'Essere dal vuoto nella mitologia greca); il grigio è il colore della depressione ma anche della indeterminazione e della tristezza.
Nella seconda fotografia, alcune selenitiche incrostazioni (dei crateri?) si aprono per mettere in mostra due colori che epifanizzano la purezza celeste: il bianco e l'azzurro. Il bianco suggerisce, almeno in Occidente, il sentimento del nitore e della trasparenza. Altrove, in Giappone per esempio, è un colore che si accompagna alle manifestazioni funebri. Però, è bianca anche la balena del romanzo Moby Dick di H. Melville. La balena presentifica il mostro, certifica la presenza attiva di una inarrestabile pulsione di morte vissuta dal capitano Achab. E' un colore ambiguo, quindi. E' un colore che varia col modificarsi degli stati d'animo?
L'azzurro è inequivocabilmente connesso ai simboli della felicità, dell'apertura, dell'alba. Quando Dante approda, di buon mattino, sulla spiaggia del Purgatorio, lo accoglie un paesaggio inondato da luci e colori, anzi, un "dolce color d'orïental zaffiro" (Purgatorio I, v. 13). E' un azzurro mite, che rivela una percezione di rinascita.
Attraverso i colori, questa fotografia consegna una comunicazione ambigua, mescolando messaggi, ad un tempo, rassicuranti ed inquietanti. Sono i crateri che inviano una sensazione assolutamente ambivalente. E cioè: il corpo della Terra è uno spazio topografico corroso dalla decomposizione? Se sì, dalla cosmogonia che la Facchin illustra germinano delle sensazioni assolutamente perturbanti.
La terza immagine esibisce una materia vellutata, evocatrice delle fascinose colorazioni del grande Tintoretto (1519-1594), di cui è nota la preferenza "per gli effetti notturni, per gli spazi vuoti e scuri" (Argan). Ed è una luminosità scura ad invadere la scena visiva, un'alta opacità che conferisce alla fotografia un'intensa purezza.
Se il colore marrone evoca la densa qualità della Terra (e dunque del suolo in cui la fioritura e il riposo si alternano), il nero stimola l'idea della morte, dell'ignoto, del mistero. La luminosità scurissima si increspa di alcune striatura bianche. La memoria corre al "Campo di grano con corvi" (1890) di V. van Gogh. Nella fotografia lo scenario ed i contenuti sono rovesciati di senso, a ben vedere, rispetto al quadro del grandissimo pittore. Se la dorata luminosità del campo di grano sembra essudare i corvi che volano radenti alle messi, sull'opacità della materica visione di New York cadono, invece, minute faville di luci bianche. L'immagine racconta l'emersione della luce (della luce-vita?) dall'oscuro buio: senz'altro è un processo di creazione in divenire.
Da “Microletture delle fotografie” di Renato Conti